domenica 22 novembre 2015

Le mani dell'altro (1924)



Un pianista di fama mondiale, Paul Orlac, perde entrambe le mani in seguito a un terribile incidente ferroviario. Grazie a un miracoloso, tempestivo, intervento gli vengono trapiantate delle mani nuove, precedentemente appartenute a Visseur, un assassino condannato alla ghigliottina. Dopo aver scoperto l’identità del donatore, Orlac è sconvolto tanto da rifiutare di utilizzare gli arti per suonare o abbracciare la moglie, fino a credere che possano essere ancora pericolose.


Dopo i fasti del Gabinetto del Dottor Caligari, Robert Wiene e Conrad Veidt tornano ancora una volta a lavorare insieme (il loro primo “incontro” risale al 1917 con Furcht di cui abbiamo parlato qui). Il sodalizio si dimostra nuovamente vincente, grazie a una straordinaria prova d’attore di Veidt che, senza esagerare, da solo regge sulle spalle l’intero film. In pieno stile espressionista, il suo Orlac si offre allo spettatore come un personaggio follemente tormentato, in preda allo shock dopo la scoperta del precedente proprietario delle mani; un tormento tanto psichico, quanto fisico, che, unito a visioni e oscure trame altrui, precipita il protagonista in una spirale di delirio continua, fino a implorare il medico che l’ha operato di privarlo dei nuovi arti e successivamente convincersi di essere diventato, contro la sua volontà, anch’egli un assassino. Eccezionale il lavoro svolto a livello di gestualità da Veidt: un uso delle mani, che a tratti davvero sembrano dotate di vita propria, forse secondo solo a quello di Max Schreck in Nosferatu.

Dal canto suo Wiene, pur scontando una certa lentezza di fondo, realizza alcune sequenze notevoli: l’incidente ferroviario in notturna, il bacio della cameriera alla mano di Orlac (scena non priva di un certo erotismo, tra l’altro), la testa che appare al protagonista durante la degenza in clinica, gli inflessibili creditori che negano qualsiasi dilazione di pagamento alla moglie. Rispetto al Caligari o a Genuine, le scenografie appaiono normalizzate, spoglie, fredde ma funzionali (in particolare gli interni dell' abitazione di Orlac e di quella del suo arcigno genitore) a far da sfondo, quasi come tele di un quadro (grazie anche all’ottima fotografia), alla rappresentazione delle vicende raccontate. Un peccato però che la trama, basata sul romanzo francese Les Mains D’Orlac (1921) di Maurice Renard, dopo una prima parte in cui tensione e paranoia raggiungono vette altissime, prediliga, come la sua controparte letteraria, la via del mistery anziché prediligere un’alternativa soprannaturale che forse sarebbe stata preferibile, a dispetto dell’improbabile soluzione prospettata. Più di tutto è però la conclusione, che scivola verso un frettoloso lieto fine, a lasciare una punta d’amaro in bocca. La pellicola rimane comunque molto buona, non a caso riscosse un grande successo in patria (e non solo) nonostante il divieto ai minori, tanto da generare diversi remake nel corso degli anni (il primo dei quali già nel 1935, Mad Love, per la regia di Karl Freund). Inoltre gli va probabilmente riconosciuta un’importanza seminale nell’aver ispirato quel sottobosco, invero poco nutrito, di horror in cui al protagonista viene trapiantato un organo appartenuto a gente poco raccomandabile (al volo mi soccorre l’esempio del terzo episodio di Body Bags di John Carpenter).


Reperibilità: Buona. Il film, ormai di pubblico dominio, è liberamente visionabile su Youtube. In DVD è consigliata l’edizione della “solita” Kino che propone una versione più lunga, con titolo (The Hands of Orlac) e intertitoli in inglese, di recente restauro, accompagnata da un’ottima colonna sonora ad opera di Henning Lohner. Non mi pare esistano edizioni italiane al momento.


Titolo: Orlacs Hände
Produzione: Germania/Austria (1924), b/n, muto, 105 minuti
Regia: Robert Wiene
Cast: Conrad Veidt, Fritz Kortner, Alexandra Sorina, Carmen Cartellieri

Altri film di Robert Wiene:

domenica 15 novembre 2015

Il Gobbo di Notre Dame (1923)


Liberamente tratto dal classicissimo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, il film, ambientato, come il romanzo, nella Parigi del XV secolo, vede intrecciarsi le vicende di alcuni personaggi innamorati della giovane zingara Esmeralda. Tra di essi vi è il deforme Quasimodo, un gobbo al servizio di Jehan, il malvagio fratello dell’Arcidiacono della Cattedrale, anch’egli invaghito della bella gitana. Intanto nei bassifondi, Clopin, il padre adottivo di Esmeralda, comincia a progettare un’insurrezione popolare contro la nobiltà francese.

Il Gobbo di Notre Dame diretto da Wallace Worsley fu un vero e proprio kolossal, con un dispiego enorme di mezzi e comparse, capace di incassare la cifra di 3 milioni di dollari, quasi un record per l’epoca. La sua riconducibilità all’horror è, in realtà, piuttosto remota benché sia un titolo spesso citato nei siti e nella bibliografia di settore. Se ne parliamo qui è fondamentalmente per due ragioni. La prima è che può essere considerato il film che anticipa, o meglio sarebbe dire inaugura, la fortunata era dei mostri classici della casa di produzione Universal, che soprattutto negli anni 30 avrà un’importanza decisiva nella definizione dell’horror come genere cinematografico. La seconda ragione corrisponde invece a un nome leggendario: Lon Chaney. Di questo straordinario artista avremo così altre poche volte occasione di parlare, considerata la scomparsa di tante pellicole che lo vedevano protagonista, che mi sarebbe parso un delitto perdere questa opportunità. Proprio grazie a questo film Chaney elevò la sua popolarità di attore a quello di star assoluta del cinema americano. Per prepararsi ad interpretare Quasimodo dapprima incontrò alcune persone sofferenti di particolari deformazioni fisiche per studiarne la postura, poi sul set si sottopose a una delle più stupefacenti sessioni di trucco, tra quelle che lo resero famoso. Una finta gobba di gesso (del peso di circa 15 libbre), una parrucca arruffata, naso e denti finti, lenti a contatto, abbondante pelo fittizio applicato a torace e schiena lo trasformarono in una creatura ripugnante e ferina a cui Chaney seppe aggiungere una straordinaria umanità, capace di commuovere lo spettatore nello struggente finale, pur completamente diverso da quello del romanzo di Hugo. La cura maniacale messa anima e corpo nel make-up ebbe pesanti ripercussioni sul suo fisico: pare che il tutore in cui costrinse le sue gambe per impostare la particolare andatura di Quasimodo gli procurò dolori che si portò appresso per il resto della vita. Inoltre le lenti a contatto usate gli causarono un forte calo della vista. Questo era Chaney. Un perfezionista, un genio in grado di immedesimarsi totalmente nel suo personaggio; nel diventare, in tutto e per tutto, quel personaggio. Anche a costo di pagarne il prezzo sulla propria pelle. E così Quasimodo grazie a lui, da quasi secondario nell’economia della vicenda raccontata, si erge a protagonista assoluto, vittima dei pregiudizi e della meschinità umana. In questo la figura del gobbo, si propone come precursore dell’ apologia del “diverso” che troverà la sua sublimazione in Freaks, il capolavoro di Tod Browning. Per il resto il film di Worsley si presenta decisamente più convenzionale e la sua forza, più che nella trama piegata (o piagata a seconda dei punti di vista) verso un lieto fine imprevisto, considerata la drammaticità del contesto, sta nella magnificenza delle scenografie (su tutte l’imponente ricostruzione della cattedrale), nella regia e nella precisa (e non facile) gestione di mezzi tecnici, attori e comparse; oltre i membri del cast, furono circa 750 (tra cui un centinaio di elettricisti!) le persone che, a vario titolo, prestarono la propria opera nella realizzazione della pellicola. Capitali e fattori che garantirono alla Universal il suo più grande successo commerciale dell’epoca del muto.

Reperibilità: Buona. Le versioni USA sono parecchie, dalle complete alle economiche. Esiste un’edizione italiana, in versione restaurata, della DCULT ma è momentaneamente fuori catalogo, anche se alcuni siti ne hanno ancora copie per la vendita senza spendere cifre esagerate. In alternativa si può sempre ricorrere a Ebay, a prezzi contenuti per quel che ho visto.

Titolo: The Hunchback of Notre Dame
Produzione: USA (1923), b/n, muto, 133 minuti
Regia: Wallace Worsley
Cast: Lon Chaney, Patsy Ruth Miller, Norman Kerry, Ernest Torrence



domenica 25 ottobre 2015

Ombre ammonitrici (1923)




Un misterioso artista di strada, “maestro” delle ombre cinesi, si presenta alla porta della dimora di un nobile dove è in corso una cena di gala. Il padrone di casa, gelosissimo della moglie, è ossessionato dall’idea che qualcuno degli invitati possa mettere le mani sulla sua signora; tanto più che la donna non sembra insensibile alle avances dei suoi corteggiatori. L’intrattenitore, manipolando le ombre dei presenti, mostra però loro cosa potrebbe succedere se dessero libero sfogo alle proprie pulsioni.

Ombre Ammonitrici è un formidabile esempio di quanto il cinema espressionista tedesco fosse sinonimo di libertà creativa. Pur considerato un’opera minore a confronto dei contemporanei Nosferatu e Caligari, è anch’esso un film che, grazie alla forza evocativa delle immagini riesce a sopperire alla limitatezza comunicativa imposta dal livello tecnico dell’epoca del muto e del bianco e nero; anzi, proprio nel tentativo di sfuggire a tali limiti sta, probabilmente, la sua portata innovativa.  

Protagoniste assolute sono qui le ombre che rivelano le paure, i sentimenti e i turbamenti dei protagonisti. La pellicola stessa è concepita come un inusuale teatro su cui si allungano le ombre, componendo forme per nulla casuali. Ancora una volta, infatti, l’espressionismo si fonde con la psicanalisi, sublimando ed esteriorizzando le emozioni dei personaggi che, se assecondate, li condurrebbero a tragiche conseguenze: il marito, reso folle dalla gelosia, costringerebbe per vendetta i suoi rivali a trafiggere a fil di spada la consorte infedele. Mentre dimensione onirica e reale si sovrappongono, emerge anche il tema del doppio: l’ombra come lato oscuro dell’anima, dove si nascondono i pensieri più turpi e pericolosi dell’inconscio. Tormenti amorosi, istinti omicidi, erotismo esplicito sono dunque gli ingredienti principali utilizzati dal regista Arthur Robison, autore anche dello script insieme a Rudolf Schneider e Albin Grau.  Robison, nato in America da genitori tedeschi di origine ebrea, si trasferì prestissimo in Germania dove studiò medicina all’Università di Monaco di Baviera, prima di dedicarsi al teatro e poi al cinema. I suoi studi e le teorie di Carl Jung si rivelarono probabilmente determinanti nell’inserimento di implicazioni psicanalitiche nella trama. Fu però, a quanto si dice, Grau, già produttore, art director e costume designer del Nosferatu di Murnau, ad avere l’idea principale, ispirato da un’illustrazione del libro “The Dogma and Ritual of High Magic” di Eliphas Levi.
 
Reduci da Nosferatu erano anche due elementi del cast: Alexander Granach e Gustav Von Wangenheim, interpreti rispettivamente del maestro di ombre e dell’amante della nobildonna, mentre nel film di Murnau avevano indossati i panni di Knock/Renfield e Hutter/Harker. Il più convincente è però Fritz Kortner, il nobile protagonista, con una recitazione sopra le righe che oscura quella degli altri attori, più di stampo teatrale. Peccato per il lieto fine che rischia di declassare il tutto a una banale morale. L'impostazione teatrale con cui la vicenda viene rappresentata denota, inoltre, poca dimestichezza con il linguaggio cinematografico da parte di Robison.
Al di là di questi limiti, Ombre Ammonitrici è un’opera poco conosciuta che merità di essere riscoperta.


Reperibilità: E’ tranquillamente visionabile su Youtube (cercatelo con il titolo originale o quello inglese “Warning Shadows”). In DVD non è facilissimo da trovare, ma esiste un’edizione USA della sempre fornita Kino Video, non proprio a buon mercato. In rete è reperibile anche una versione con intertitoli italiani, di cui ignoro provenienza.

Titolo: Schatten – Eine Nächtliche Halluzination
Produzione: Germania (1923), b/n, muto, 90 minuti
Regia: Arthur Robison
Cast: Alexander Granach, Fritz Kortner, Ruth Weyer, Gustav Von Wangenheim


domenica 18 ottobre 2015

La Stregoneria attraverso i secoli (1922)



Torniamo in Nord Europa, precisamente in Danimarca, anche se il film è prodotto con moneta svedese. Ho scelto di eliminare la sinossi in quest’unico caso perché Häxan è un’opera talmente particolare che è impossibile trattarla come le altre. Nasce come documentario, con una prima parte essenzialmente didascalica e introduttiva che propone una serie di incisioni, immagini e animazioni per raccontare come il demonio e la superstizione abbiano fatto parte della cultura umana fin dalla nascita delle prime civiltà. Si passa poi al MedioEvo e alle incursioni peccaminose di Satana. Ma è con la terza delle 7 parti in cui il film è diviso che il regista Benjamin Christensen inizia a esporci davvero la sua tesi relativa alla stregoneria sulla quale incide pesantemente il giudizio sullo sfruttamento delle credenze popolari e sui barbari sistemi di tortura utilizzati dall’Inquisizione. Una critica rivolta alla Chiesa in maniera del tutto esplicita, con una rappresentazione dei religiosi protagonisti della main story del film come uomini turpi tanto nell’animo quanto nel corpo. Nel finale, spostato cronologicamente avanti fino all’era (allora) attuale, Christensen chiude il discorso, tracciando un parallelismo tra stregoneria e isteria e sostenendo, tra le righe, che nulla è cambiato nei secoli trascorsi.  La pellicola fonde insieme, dunque, proprio come un gigantesco calderone, fiction, exploitation e finto documentario in stile mondo-movie in una simbiosi allucinante e stupefacente. Addirittura si potrebbe parlare di un arcaico precursore di questi sotto-generi in cui realtà e finzione si mescolano, anche perché in Häxan sono le immagini, forti, shockanti, deliranti a prevalere nettamente sul messaggio. A dispetto dell’incipit storiografico, Christensen mostra un’imprevedibile talento visionario, per eccesso quasi senza pari e capace di influenzare anche cineasti moderni come Ken Russell o Rob Zombie (le cui Streghe di Salem qualche debito con questo film lo scontano). 
Tra le prime scene a lasciare a bocca aperta, considerati i mezzi dell’epoca, c’è quella delle streghe che si librano in volo a cavallo delle loro scope, realizzata per mezzo di un modellino di un paese fatto girare su un enorme tavolo rotante, un motore di aereo per simulare lo svolazzamento dei costumi e l’ottima sovrapposizione creata dal direttore della fotografia Johan Ankerstjerne. Inventiva e ampio budget, non a caso fu il film più costoso prodotto in Svezia fino ad allora. Nella terza parte, con la (falsa) confessione estorta alla donna accusata dagli inquisitori si scatena un delirio oltre i limiti della blasfemia. Viene rappresentato un Sabba in cui accade di tutto: streghe che baciano il deretano di Satana, nudità, accoppiamenti con demoni e satiri, sacrifici di neonati, crocifissi calpestati, in una composizione orgiastica e sulfurea formalmente riconducibile alle opere di Gustav Dorè e Hieronymus Bosch. Meno visivamente ricca ma altrettanto agghiacciante è la sequenza in cui vengono mostrati i terribili strumenti di tortura utilizzati negli interrogatori alle presunte streghe. C’è spazio anche per un pizzico di ironia nelle varie incursioni del Diavolo tentatore, capace di mettere il suo zampino anche all’interno di un convento (una scena che ricorda il cortometraggio di Mèliés “Le Diable au couvent” di un paio di decenni prima). E lasciano il segno anche i roghi dell’Inquisizione, immagine che forse più di tutte esprime l’amarezza e la drammaticità del pensiero di Christensen.
In conclusione La Stregoneria attraverso i secoli è un film, sia a livello tecnico che concettuale, molto avanti rispetto all’epoca in cui venne girato. Precursore, visionario e genuinamente horror.

Reperibilità: Si può contare su un’edizione italiana della “solita” Ermitage, a prezzi modici. Le proposte straniere abbondano di extra, quella più completa è quella della Criterion Collection che propone le 2 versioni esistenti: quella lunga, “tradizionale” con colonna sonora composta da brani di musica classica, e quella rieditata (e più corta di circa mezzora) nel 1968 con voce narrante di William Burroughs e accompagnamento musicale jazz.

Titolo: Häxan
Produzione: Svezia (1922), b/n, muto, 104 minuti
Regia: Benjamin Christensen
Cast: Maren Pedersen, Elith Pio, Oscar Stribolt, Benjamin Christensen