domenica 24 maggio 2015

Rapsodia Satanica (1917)





“L’anziana contessa Alba D’Oltrevita stipula un patto con il satanico Mefisto per riottenere la giovinezza perduta, in cambio della quale rinuncia per sempre a innamorarsi. La promessa, però, viene messa a rischio dai corteggiamenti di due fratelli: Tristano e Sergio. Quest’ultimo arriva a minacciare di suicidarsi se Alba non lo amerà.”

Ispirato a un poema di Fausto Maria Martini di evidente derivazione faustiana, “Rapsodia Satanica” è l’ultimo film del giovanissimo regista Nino Oxilia, tragicamente perito nel corso del primo conflitto mondiale a seguito dell’esplosione di una granata durante la difesa del Monte Grappa. Se il tema del patto con il diavolo (o chi per esso) è comune a molte coeve produzioni dell’epoca (una per tutte, “Lo studente di Praga”), atipica è l’atmosfera malinconica di cui la pellicola è intrisa nel prologo e soprattutto nella parte finale. C’è chi ha parlato di influenza “dannunziana”, ma è in particolare alla corrente letteraria del crepuscolarismo, di cui gli stessi Martini e Oxilia erano esponenti, che si devono le più pregnanti suggestioni dell’opera. L’esasperato estetismo delle passioni, la parabola decadente della nobiltà, il languore di una perenne insoddisfazione emotiva, i simbolismi sono tutti elementi di cui il film trasuda, trovando il perfetto complemento nelle location, nell’accompagnamento musicale di Mascagni (forse definibile come prima vera e propria colonna sonora) e soprattutto nella recitazione di Lyda Borelli, diva del muto italiano, nei panni della contessa.
La Borelli riesce a essere credibile tanto come femme fatale, quando, passando da un ricevimento all’altro, è costretta suo malgrado a rinunciare alle avance dei corteggiatori, quanto come donna capace di abbandonarsi totalmente all’amore, quando si rende conto dei sentimenti che prova per Tristano. E’ nel finale, però, che la sua recitazione e la vicenda raggiungono le vette più alte, quando avvolta in un velo nuziale che ricorda un tetro sudario, danza sulle note di una rapsodia come una figura quasi eterea, anticipando l’imminente tragica conclusione. Tra gli altri attori, indimenticabile il Mefisto di Ugo Bazzini, sia per il make up decisamente efficace, sia per le ripetute incursioni che instillano un pizzico di inquietudine anche nei momenti di calma.

In conclusione, un’opera pre-espressionista sorprendente e poetica che il recente restauro ci ha restituito ottima in qualità di immagini (e in durata da mediometraggio).

Reperibilità: non esistono al momento edizioni in DVD, pur essendo stato il film restaurato in 2 versioni (una delle quali parzialmente a colori). E’ comunque visionabile su Youtube.

Titolo: Rapsodia Satanica
Produzione: Italia (1915), b/n, muto, 55 minuti (circa 45 in versione restaurata)
Regia: Nino Oxilia
Cast: Lyda Borelli, Ugo Bazzini, Giovanni Cini, Andrea Habay


giovedì 7 maggio 2015

Dossier: Le Origini del Male - ultima puntata (1915-1916)



In Europa “Lo studente di Praga” aveva preannunciato in qualche modo la fortunata era del cinema espressionista tedesco che sarebbe deflagrata di lì a poco. Wegener, sulle ali del successo ottenuto con il suo lungometraggio d’esordio, ritornò a interessarsi di horror con Il “Golem”, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gustav Meyrink e primo film di un’ideale trilogia di cui è sopravvissuto solo il capitolo più recente girato nel 1920. Del capostipite rimane, purtroppo, solo un frammento di poco più di 3 minuti, sufficiente a rammaricarsi di non poterne vedere il resto (circolano però voci mai confermate sull’esistenza di una copia intatta in possesso di un collezionista). In ogni caso per Wegener fu un nuovo trionfo.



In America, invece, continuò la tendenza ad attingere a piene mani dai (già allora) classici della letteratura gotica, oltre che da Poe come per “La coscienza rivelatrice” di cui abbiamo parlato qualche giorno fa. Il Frankenstein di Mary Shelley, già trasposto in cortometraggio nel 1910 (recuperabile nella puntata 2 di questo dossier), fu liberamente adattato in versione estesa, questa volta da Joseph W. Smiley, con “Life without soul” anch’esso purtroppo andato perduto. 





Il nostro excursus sul primo ventennio di storia di cinema horror si conclude con due opere particolari, la prima fortunatamente giunta del tutto integra fino a noi: “Les Vampires” (disponibile in diverse versioni import e visionabile su Youtube) del regista Louis Feuillade, reduce dal successo di “Fantomas”. Il film, diviso in 10 episodi proiettati in Francia tra il novembre del 1915 e il giugno del 1916, ha un’importanza incommensurabile nella nascita del serial cinematografico (e poi televisivo). I Vampiri protagonisti, però, non sono i non-morti tramandati dal folklore popolare o dagli scritti di Bram Stoker, ma una banda di criminali parigini così nominatasi, per cui l’inclusione del serial di Feuillade nel genere è molto dibattuta. La trama rimane fondamentalmente quella di un poliziesco o un thriller, ma ci sono elementi “neri” piuttosto interessanti, dai travestimenti indossati dai fuorilegge alla perturbante continua minaccia al familiare ambiente borghese. Al di là delle classificazioni, l’anima del film è tutta nell’iconico personaggio di Irma Vep (anagramma di vampiro in francese) interpretata dalla carismatica Musidora (al secolo Jeanne Roques) nel ruolo della vita che la proietterà nell’Olimpo cinematografico.






La seconda opera di cui sopra (e ultima citata nel dossier) è “The Crimson Stain Mistery” dell’americano Thomas Hayes Hunter anch'essa un serial, in 16 episodi, dalle caratteristiche più marcatamente fanta-orrorifiche: narra infatti la storia del Dottor Montrose che, nel tentativo di sperimentare un farmaco in grado di sviluppare le facoltà intellettive delle persone, trasforma le sue cavie in mutanti criminali. Pare che gli episodi sopravvissuti siano almeno una decina, ma conservati in archivi privati e praticamente irreperibili. 




sabato 2 maggio 2015

La coscienza vendicatrice (1914)



“Un uomo si prende cura del nipote rimasto orfano alla nascita, affezionandosene quasi morbosamente più che a un figlio. Il suo atteggiamento iper-protettivo lo porta però a ostacolare la storia d’amore tra il suo pupillo e una giovane da poco conosciuta. Il nipote inizierà allora a pensare all’omicidio dello zio come unica soluzione ai suoi problemi”.

Il regista David Wark Griffith e Edgar Allan Poe si erano già incontrati 3 anni prima nel cortometraggio “The Sealed Room” (ne avevamo parlato qui). Stavolta l’ispirazione è doppia: vengono esplicitamente citati la poesia “Annabel Lee” e “Il cuore rivelatore”, uno dei racconti più celebri dello scrittore originario di Boston. Non è però l’orrore il fine ultimo ricercato da Griffith in questo film che anticipa di un anno “Nascita di una nazione”, il suo discusso capolavoro, ma l’indagine della natura umana, capace per necessità di compiere anche le azioni più turpi. Così bisogna scontare una prima parte quasi soporifera prima che la pellicola entri finalmente nel vivo, quando al protagonista balza in mente l’idea di sbarazzarsi dello zio dando il via libera a una serie di immagini fortemente simboliche (un ragno che intrappola e aggredisce una mosca, formiche che divorano un’ape, ecc..).
L’intenzione del delitto genera una trasformazione caratteriale, quasi somatica nel nipote (interpretato da un ottimo Henry Walthall) e scatena una serie di allucinazioni che sembrano condurlo, minuto dopo minuto, in un irreversibile baratro di follia. Colpisce, in particolare, il fantasma dello zio che esce dal caminetto a tormentare la coscienza del suo assassino, come succedeva al protagonista del “Cuore rivelatore” ossessionato dai battiti cardiaci della sua vittima. Purtroppo Griffith non ha il coraggio, o la volontà, di percorrere fino in fondo questa strada, scegliendo nel finale di rimettere in discussione tutto e mantenendo sì l’approccio simbolico, ma abbracciando una lieta conclusione della vicenda a scapito di quella mortalmente tragica offerta qualche scena prima. Peccato perché effetti speciali e montaggio testimoniano una maturità avanguardista del regista che avrebbe potuto proiettare la pellicola nell’olimpo dei grandi horror del cinema muto. Buona la prova degli attori; oltre al già citato Walthall, menzione d’onore per Spottiswoode Aitken nei panni dell’antipaticissimo zio dall’occhio bendato.

In conclusione, un’occasione persa di realizzare uno spaventoso affresco della metà oscura dell’animo umano. La parte centrale del film è ottima, il finale insostenibile (almeno per un horror fan). 

Reperibilità: Buona. Il film, precedentemente conosciuto nel nostro Paese con il titolo “Ragnatela”, è stato recentemente editato in DVD dalla Ermitage Cinema, con sottotitoli in italiano.

Titolo: The Avenging Coscience
Produzione: USA (1914), b/n, muto, 78 minuti
Regia: D.W. Griffith
Cast: Henry B. Walthall, Spottiswoode Aitken, Blanche Sweet, George Siegmann