Un uomo lavora come inserviente in un
ospedale psichiatrico per stare accanto alla moglie ricoverata, ormai completamente alienata,
sognando di farla fuggire.
Scrivere la
sinossi di A Page of Madness è
compito arduo. Non perché il film sia giapponese, ma per la totale assenza di
didascalie supportanti il racconto che rimane quindi affidato alle sole immagini.
Neppure queste ultime, però, consentono di chiarire tutti i punti, perché la
narrazione è discontinua, a tratti delirante, dipanandosi tra continui
flashback ed elementi onirici. All’epoca, d’altronde, i film muti in Giappone
non necessitavano di intertitoli in quanto la loro proiezione era accompagnata
dalla voce di un narratore in sala. Certo, in fondo c’è un
messaggio abbastanza forte e chiaro di denuncia sociale, ma quello che lascia
davvero senza fiato di fronte a questo capolavoro del cinema muto sono la potenza
visionaria, la perfezione tecnica, la suggestione visiva. I primi minuti sono
da mozzare il fiato, con la danza della ballerina che poi si scopre stare
dietro le sbarre di una cella; segue poi un montaggio
adrenalinico e una scelta delle immagini che in qualcosa ricorda l’espressionismo
tedesco che evidentemente il regista Teinosuke Kinugasa conosceva bene (il suo
film preferito pare fosse L’ultima risata
di F.W. Murnau).
E’ cinema d’avanguardia, sperimentale, eppure, a livello
tecnico e formale, ineccepibile. Mi pare di poter rintracciare la sua influenza anche tra cineasti
moderni come ad esempio Shinya Tsukamoto, un altro che di deliri se ne intende. L’accompagnamento musicale (assente però nell’originale
versione del 1926) è assolutamente strepitoso, unico, a tratti inquietante ed è
l’ideale complemento a questo affresco della pazzia che Kinugasa realizza con l’ausilio
di lenti deformanti, doppie esposizioni, split screen, luci abbaglianti,
inquadrature oblique e rovesciate, finti fulmini. Un campionario moderno che stupisce vedere così ben padroneggiato, considerando l’età della pellicola. Rimane
indelebile anche l’interpretazione del protagonista, un sofferto Masuo Inoue
che affronta il dramma della moglie, prima con ferrea volontà di cambiamentoe sperando di riuscire a fare fuggire l'amata, anche a costo di battersi con
pazienti e dottori, e infine con rassegnazione. Splendido in questo senso il
finale in cui sogna di far indossare le maschere agli alienati, regalando loro
(oltre a sé e alla consorte) una felicità effimera. Un tocco delicatissimo in
cui è riconoscibile la mano dello scrittore Yasunari Kawabata (premio Nobel per
la letteratura nel 1968) qui co-autore della sceneggiatura. Elemento spesso
presente nel film è poi l’acqua, a simboleggiare vita e morte e ad aggiungere
un senso di oppressione a un’atmosfera già particolarmente claustrofobica, in
cui emergono, improvvisi, i volti dei pazienti dell’ospedale, distorti dalla
follia.
Poco
conosciuto, ma imperdibile gemma del cinema muto, assolutamente da vedere. Per
oltre 40 anni è stato ritenuto perduto, finché lo stesso regista, nel 1971, né trovò
fortunosamente una copia nascosta in casa, copia poi ri-musicata l’anno
successivo.
Reperibilità: E’ liberamente
visionabile su Youtube.
Titolo: Kurutta Ippeiji
Produzione:
Giappone (1926), b/n, muto, 59 minuti
Regia: Teinosuke
Kinugasa
Cast: Masuo
Inoue, Ayako Ijima, Yoshie Nakagawa, Misao Seki
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