Un uomo, dopo
aver affilato un rasoio, si avvicina a una donna e, tenendone ben aperta la
palpebra, le taglia a metà l’occhio sinistro. Si apre con questa scena, ancor
oggi insostenibile a oltre novant’anni di distanza, il cortometraggio con cui
Luis Buñuel e Salvador Dalì convertirono in linguaggio cinematografico i principi
del manifesto surrealista. I due elaborarono una sceneggiatura, apparentemente
senza senso, traendo ispirazione anche da immagini che avevano realmente
sognato, come appunto quella dell’occhio reciso (un incubo di Buñuel) e quella
successiva del buco nella mano da cui escono le formiche (la paternità del
sogno in questo caso è di Dalì). Un cane
andaluso è, però, un’opera che sfugge alla classificazione in qualsivoglia
genere. Gli autori stessi lo concepirono come anti-artistico e anti-narrativo,
per cui è vano cercarne un senso univoco o una chiave di interpretazione globale,
anche se in qualche modo un filo logico di trama e di intenzione c’è, a
dispetto delle indicazioni temporali del tutto fuorvianti fornite nel corso
della pellicola. Evidente è l’intento provocatorio, anti-borghese e
anti-clericale (che ancor più manifesto sarà nella successiva collaborazione
del duo, il lungometraggio L’Age d’Or),
nella ricerca voluta ed esasperata di immagini bizzarre e scioccanti, tanto più
se cronologicamente collocate negli anni venti.
Nel caleidoscopio messo in
scena da Buñuel c’è spazio anche per insospettabili omaggi all’attività da
regista di Buster Keaton e al quadro “Oscuro Sospetto” di René Magritte (che,
pare, fu tra gli spettatori della prima proiezione del corto avvenuta a Parigi
nel 1929). Certamente se si vuole cercare una possibile chiave di lettura, in
considerazione di quello su cui i due spagnoli hanno più insistito ovvero le
pulsioni sessuali negate, bisognerebbe ricorrere alle interpretazioni psicanalitiche
dell’Es e del Perturbante teorizzato da Freud. Per chi volesse approfondire c’è
una letteratura sterminata sul cinema di Buñuel, ma anche in rete si trovano
parecchie teorie e analisi interessanti (mi permetto di suggerire questa).
Per quanto riguarda l’aspetto essenzialmente horror, possiamo limitarci ad osservare Un Chien Andalou in superficie, osservando
le singole scene più forti per come appaiono. Oltre a quelle già citate, di
nostro interesse potrebbe essere anche quella della mano mozzata in mezzo alla
strada (una leggenda metropolitana totalmente infondata narrava che Dalì avesse
convinto un uomo a farsela tagliare!). Ma è tutto il film, nel suo insieme, a
produrre un effetto straniante e angosciante per lo spettatore, a partire da
quell’indimenticabile occhio squarciato. Una piccola opera d’arte in movimento,
onirica e surreale.
Curiosità: per
realizzare la fatidica scena iniziale fu utilizzato il bulbo oculare di un
vitello morto. La colonna sonora, identica alla musica d’accompagnamento che Buñuel
scelse per la proiezione del 1929, fu aggiunta alla pellicola solo nel 1960. In
una sequenza compare la falena “testa di morto” resa poi celebre da Il Silenzio degli Innocenti (libro e
film).
Reperibilità: Nessun problema.
Solo l’imbarazzo della scelta.
Titolo: Un Chien Andalou
Produzione:
Francia (1929), b/n, muto, 16 minuti
Regia:
Luis Buñuel
Cast: Pierre
Batcheff, Simone Mareuil, Luis Buñuel, Salvador Dalì
Qui i primi 40 secondi del cortometraggio, con l’invito ai
più sensibili ad astenersi dalla visione:
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