Henry Frankenstein è uno scienziato
ossessionato dall’idea di infondere artificialmente la vita a un corpo
inanimato. Per raggiungere i suoi scopi non esita a trafugare illegalmente
cadaveri e parti anatomiche, aiutato dal gobbo aiutante Fritz. La sua fidanzata
Elizabeth, preoccupata per la salute del promesso sposo rinchiuso in
laboratorio da giorni, chiede aiuto all’amico Victor e all’ex mentore di Henry,
il dottor Waldman. I tre bussano alla porta dello scienziato in una notte di
tempesta, proprio quando l’esperimento è ormai prossimo a compiersi.
Come abbiamo
visto, la genesi di Dracula fu
determinata, a monte, dalla scomparsa di Paul Leni prima e di Lon Chaney poi,
costringendo l’Universal a scegliere Browning come regista e a ripiegare (si fa
per dire!) su Lugosi come protagonista. La storia produttiva di Frankenstein fu
ancora più complessa, cambiando radicalmente addirittura in corso d’opera.
Anche in questo caso Universal, che già da tempo pensava a una trasposizione
del romanzo di Mary Shelley, aveva acquistato i diritti della riduzione
teatrale ad opera di Peggy Webling, in cui c’era anche lo zampino di John
Balderston già autore di quella di Dracula; era inoltre stato stanziato un
grosse budget, per merito del trionfo al botteghino del film di Browning. Ancora
una volta venne designato inizialmente un cineasta diverso da quello che poi
avrebbe firmato l’opera, il francese Robert Florey. Immigrato a Hollywood una
decina di anni prima, Florey aveva in testa un progetto dichiaratamente
ispirato all’estetica dell’espressionismo tedesco, al Caligari di Wiene in particolare, e per la parte dello scienziato
aveva subito pensato a Lugosi. Carl Laemmle, voleva che Lugosi, attore del
momento, vestisse, invece, i panni del mostro e fu così che venne addirittura
girato un provino (purtroppo andato perduto), sul set del castello di Dracula (!)
in cui Bela indossava un costume simile a quello del Golem di Paul Wegener.
A questo punto i lavori sembravano pronti a
partire, tant’è che venne anche realizzata una locandina con il nome dell’attore
ungherese scritto a caratteri cubitali. La situazione cambiò, invece, totalmente
in brevissimo tempo perché il progetto finì col non convincere né Lugosi, che
alla fine rifiutò la parte, né la Universal che, intenzionata a tutti i costi a
ripetere il successo di Dracula,
sostituì Florey con il più affidabile
James Whale, già da tempo interessato al soggetto. Whale rimaneggiò la
sceneggiatura pre-esistente, già parecchio distante dal romanzo di Mary
Shelley, e per la parte del mostro decise di scommettere su un attore allora
poco conosciuto e nemmeno più giovanissimo: William Henry Pratt, in arte Boris
Karloff. Come Lugosi, anche Karloff finì per incarnare, grazie al decisivo
contributo del make-up di Jack Pierce, l’icona del mostro che interpretava, lanciando
nell’immaginario collettivo una figura imponente, dalla testa piatta, i piedi
enormi, piena di cicatrici (a simboleggiare il taglio&cucito del patchwork
di cadaveri) abiti stracciati e, naturalmente, gli elettrodi sul collo.
Nonostante le pesantissime, e spesso anche dolorose, sessioni di trucco,
Karloff riuscì comunque ad essere molto efficace nella sua recitazione grazie
alla gestualità e alla mimica facciale, conferendo anche un’espressione dolente
e malinconica (ma, all’occorrenza anche feroce) alla creatura e imponendosi
come una nuova star nel firmamento hollywoodiano.
Anche il resto del cast se la
cavò egregiamente, da Colin Clive, convincente nei panni di Henry Frankenstein,
ai già rodati Van Sloan (che compare anche prima dei titoli di testa per
mettere in guardia gli spettatori) e soprattutto Frye, interprete, dopo il
folle Renfield, di un personaggio molto al di sopra delle righe, forse pure
troppo: il gobbo servitore Fritz. Anche quest’ultimo diventerà, in misura
minore, un modello tanto da venire imitato e/o parodiato in successive altre
pellicole, con Frankenstein Junior di
Mel Brooks ovviamente in prima linea. Il film di Whale si basava, comunque, su
elementi già consolidati o già visti. Lo scienziato ossessionato, con il
servitore deforme e il laboratorio isolato pieno di alambicchi e macchinari (con
tanto di fulmini) si era già visto nel misconosciuto e seminale The Magician (film muto del 1926 di Rex
Ingram di cui abbiamo già parlato qui). Anche il make-up della creatura potrebbe
essere considerato come una versione evoluta e corretta di quello applicato a
Charles Ogle nel corto Frankenstein
(1910). Della sceneggiatura e dell’influenza espressionista già abbiamo detto.
Eppure Whale riuscì a combinare tutti questi elementi in modo fresco e moderno,
imprimendo, a differenza del Dracula
di Browning e a dispetto della matrice teatrale, dinamicità e ritmo alla
vicenda. Mai prima d’allora, poi, l’horror era stato così esplicito e così “crudo”.
Sono tantissime le scene memorabili: l’esperimento, l’incontro con la bambina
al lago (importantissimo per mostrare l’umanità e la sostanziale ingenuità del “mostro”),
la camminata del padre atterrito con in braccio il cadavere della figlia (senz’altro
la più toccante). L’apoteosi resta comunque il finale, con la folla inferocita,
armata di torcia, a inseguire la creatura sulle montagne, sino al rogo del
vecchio mulino. Dal punto di vista tecnico, fotografia top per l’epoca e
splendide le scenografie e i fondali. Il film ottenne meritatamente l’agognato
successo, tanto da generare di lì a poco un sequel e poi un’intera saga.
Un tassello
fondamentale nella genesi del cinema horror. Visione obbligatoria.
Curiosità: la
pellicola ebbe grossi problemi con la censura. Diverse sequenze, come quella
dell’annegamento della piccola Maria o quella (tacciata di blasfemia) in cui
Henry, galvanizzato dalla riuscita dell’esperimento si paragona a Dio, furono
tagliate e reintegrate solo in tempi relativamente recenti.
Reperibilità: Ottima. Anche in
questo caso c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Titolo: Frankenstein
Produzione:
USA(1931), b/n, 70 minuti
Regia: James Whale
Cast: Boris Karloff, Colin Clive, Mae Clarke,
Edward Van Sloan
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