domenica 25 ottobre 2015

Ombre ammonitrici (1923)




Un misterioso artista di strada, “maestro” delle ombre cinesi, si presenta alla porta della dimora di un nobile dove è in corso una cena di gala. Il padrone di casa, gelosissimo della moglie, è ossessionato dall’idea che qualcuno degli invitati possa mettere le mani sulla sua signora; tanto più che la donna non sembra insensibile alle avances dei suoi corteggiatori. L’intrattenitore, manipolando le ombre dei presenti, mostra però loro cosa potrebbe succedere se dessero libero sfogo alle proprie pulsioni.

Ombre Ammonitrici è un formidabile esempio di quanto il cinema espressionista tedesco fosse sinonimo di libertà creativa. Pur considerato un’opera minore a confronto dei contemporanei Nosferatu e Caligari, è anch’esso un film che, grazie alla forza evocativa delle immagini riesce a sopperire alla limitatezza comunicativa imposta dal livello tecnico dell’epoca del muto e del bianco e nero; anzi, proprio nel tentativo di sfuggire a tali limiti sta, probabilmente, la sua portata innovativa.  

Protagoniste assolute sono qui le ombre che rivelano le paure, i sentimenti e i turbamenti dei protagonisti. La pellicola stessa è concepita come un inusuale teatro su cui si allungano le ombre, componendo forme per nulla casuali. Ancora una volta, infatti, l’espressionismo si fonde con la psicanalisi, sublimando ed esteriorizzando le emozioni dei personaggi che, se assecondate, li condurrebbero a tragiche conseguenze: il marito, reso folle dalla gelosia, costringerebbe per vendetta i suoi rivali a trafiggere a fil di spada la consorte infedele. Mentre dimensione onirica e reale si sovrappongono, emerge anche il tema del doppio: l’ombra come lato oscuro dell’anima, dove si nascondono i pensieri più turpi e pericolosi dell’inconscio. Tormenti amorosi, istinti omicidi, erotismo esplicito sono dunque gli ingredienti principali utilizzati dal regista Arthur Robison, autore anche dello script insieme a Rudolf Schneider e Albin Grau.  Robison, nato in America da genitori tedeschi di origine ebrea, si trasferì prestissimo in Germania dove studiò medicina all’Università di Monaco di Baviera, prima di dedicarsi al teatro e poi al cinema. I suoi studi e le teorie di Carl Jung si rivelarono probabilmente determinanti nell’inserimento di implicazioni psicanalitiche nella trama. Fu però, a quanto si dice, Grau, già produttore, art director e costume designer del Nosferatu di Murnau, ad avere l’idea principale, ispirato da un’illustrazione del libro “The Dogma and Ritual of High Magic” di Eliphas Levi.
 
Reduci da Nosferatu erano anche due elementi del cast: Alexander Granach e Gustav Von Wangenheim, interpreti rispettivamente del maestro di ombre e dell’amante della nobildonna, mentre nel film di Murnau avevano indossati i panni di Knock/Renfield e Hutter/Harker. Il più convincente è però Fritz Kortner, il nobile protagonista, con una recitazione sopra le righe che oscura quella degli altri attori, più di stampo teatrale. Peccato per il lieto fine che rischia di declassare il tutto a una banale morale. L'impostazione teatrale con cui la vicenda viene rappresentata denota, inoltre, poca dimestichezza con il linguaggio cinematografico da parte di Robison.
Al di là di questi limiti, Ombre Ammonitrici è un’opera poco conosciuta che merità di essere riscoperta.


Reperibilità: E’ tranquillamente visionabile su Youtube (cercatelo con il titolo originale o quello inglese “Warning Shadows”). In DVD non è facilissimo da trovare, ma esiste un’edizione USA della sempre fornita Kino Video, non proprio a buon mercato. In rete è reperibile anche una versione con intertitoli italiani, di cui ignoro provenienza.

Titolo: Schatten – Eine Nächtliche Halluzination
Produzione: Germania (1923), b/n, muto, 90 minuti
Regia: Arthur Robison
Cast: Alexander Granach, Fritz Kortner, Ruth Weyer, Gustav Von Wangenheim


domenica 18 ottobre 2015

La Stregoneria attraverso i secoli (1922)



Torniamo in Nord Europa, precisamente in Danimarca, anche se il film è prodotto con moneta svedese. Ho scelto di eliminare la sinossi in quest’unico caso perché Häxan è un’opera talmente particolare che è impossibile trattarla come le altre. Nasce come documentario, con una prima parte essenzialmente didascalica e introduttiva che propone una serie di incisioni, immagini e animazioni per raccontare come il demonio e la superstizione abbiano fatto parte della cultura umana fin dalla nascita delle prime civiltà. Si passa poi al MedioEvo e alle incursioni peccaminose di Satana. Ma è con la terza delle 7 parti in cui il film è diviso che il regista Benjamin Christensen inizia a esporci davvero la sua tesi relativa alla stregoneria sulla quale incide pesantemente il giudizio sullo sfruttamento delle credenze popolari e sui barbari sistemi di tortura utilizzati dall’Inquisizione. Una critica rivolta alla Chiesa in maniera del tutto esplicita, con una rappresentazione dei religiosi protagonisti della main story del film come uomini turpi tanto nell’animo quanto nel corpo. Nel finale, spostato cronologicamente avanti fino all’era (allora) attuale, Christensen chiude il discorso, tracciando un parallelismo tra stregoneria e isteria e sostenendo, tra le righe, che nulla è cambiato nei secoli trascorsi.  La pellicola fonde insieme, dunque, proprio come un gigantesco calderone, fiction, exploitation e finto documentario in stile mondo-movie in una simbiosi allucinante e stupefacente. Addirittura si potrebbe parlare di un arcaico precursore di questi sotto-generi in cui realtà e finzione si mescolano, anche perché in Häxan sono le immagini, forti, shockanti, deliranti a prevalere nettamente sul messaggio. A dispetto dell’incipit storiografico, Christensen mostra un’imprevedibile talento visionario, per eccesso quasi senza pari e capace di influenzare anche cineasti moderni come Ken Russell o Rob Zombie (le cui Streghe di Salem qualche debito con questo film lo scontano). 
Tra le prime scene a lasciare a bocca aperta, considerati i mezzi dell’epoca, c’è quella delle streghe che si librano in volo a cavallo delle loro scope, realizzata per mezzo di un modellino di un paese fatto girare su un enorme tavolo rotante, un motore di aereo per simulare lo svolazzamento dei costumi e l’ottima sovrapposizione creata dal direttore della fotografia Johan Ankerstjerne. Inventiva e ampio budget, non a caso fu il film più costoso prodotto in Svezia fino ad allora. Nella terza parte, con la (falsa) confessione estorta alla donna accusata dagli inquisitori si scatena un delirio oltre i limiti della blasfemia. Viene rappresentato un Sabba in cui accade di tutto: streghe che baciano il deretano di Satana, nudità, accoppiamenti con demoni e satiri, sacrifici di neonati, crocifissi calpestati, in una composizione orgiastica e sulfurea formalmente riconducibile alle opere di Gustav Dorè e Hieronymus Bosch. Meno visivamente ricca ma altrettanto agghiacciante è la sequenza in cui vengono mostrati i terribili strumenti di tortura utilizzati negli interrogatori alle presunte streghe. C’è spazio anche per un pizzico di ironia nelle varie incursioni del Diavolo tentatore, capace di mettere il suo zampino anche all’interno di un convento (una scena che ricorda il cortometraggio di Mèliés “Le Diable au couvent” di un paio di decenni prima). E lasciano il segno anche i roghi dell’Inquisizione, immagine che forse più di tutte esprime l’amarezza e la drammaticità del pensiero di Christensen.
In conclusione La Stregoneria attraverso i secoli è un film, sia a livello tecnico che concettuale, molto avanti rispetto all’epoca in cui venne girato. Precursore, visionario e genuinamente horror.

Reperibilità: Si può contare su un’edizione italiana della “solita” Ermitage, a prezzi modici. Le proposte straniere abbondano di extra, quella più completa è quella della Criterion Collection che propone le 2 versioni esistenti: quella lunga, “tradizionale” con colonna sonora composta da brani di musica classica, e quella rieditata (e più corta di circa mezzora) nel 1968 con voce narrante di William Burroughs e accompagnamento musicale jazz.

Titolo: Häxan
Produzione: Svezia (1922), b/n, muto, 104 minuti
Regia: Benjamin Christensen
Cast: Maren Pedersen, Elith Pio, Oscar Stribolt, Benjamin Christensen


domenica 4 ottobre 2015

Nosferatu il vampiro (1922)






“Il giovane agente immobiliare Hutter viene inviato in Transilvania per un concludere una compravendita con il misterioso Conte Orlok, intenzionato a prendere casa nella piccola cittadina di Wisborg. Giunto sul posto, Hutter viene a conoscenza delle superstizioni che aleggiano intorno al castello del Conte e che riguardano in particolare Nosferatu, un vampiro che si nutre di sangue umano”. 


Abbiamo già parlato di quanto la sfortuna si sia abbattuta sull’eredità cinematografica di Murnau. La sorte però, tra gli altri, ha risparmiato Nosferatu, un capolavoro assoluto del cinema e (ovviamente) un pilastro fondamentale nella storia del genere horror. E’ noto infatti come un tribunale ordinò la distruzione di tutte le copie esistenti del film, illegalmente tratto dal Dracula di Bram Stoker. Non bastò a Murnau cambiare titolo, modificare nomi dei personaggi e dei luoghi e apportare qualche piccola sostanziale modifica al finale, per evitare la condanna di plagio per violazione dei diritti d’autore. Lo stesso regista riuscì però a sottrarre al rogo un’unica copia che ne evitò l’oblio, permettendone la sopravvivenza sino ai giorni nostri. Sul sottotesto dell’opera e le sue possibili interpretazioni si sono scomodate psicologia e sociologia, riempiendo pagine di tesi e saggi; non è questa la sede per approfondire queste elucubrazioni, né ci sarebbe lo spazio per farlo. Mi interessa invece, porre l’attenzione sul conflitto luce-oscurità che qui si risolve non tanto nella contrapposizione tra Bene e Male, come nel romanzo di Stoker, quanto nel passaggio in una dimensione buia, terribile, ma anche irresistibile e inaspettatamente seducente. Basti pensare alle pulsioni voluttuose di Ellen che subisce il “fascino” di Orlok, ancor prima di incontrarlo, quando ancora egli si trova sui Carpazi. L’unica possibilità di salvezza è il sacrificio, consistente nell’abbandonarsi proprio all’oscurità, cedere al non-morto per far sì che venga distrutto dalla luce del sole. E qui si chiude il cerchio.
Murnau è bravissimo a ricreare su pellicola questo conflitto attraverso scene stampate in negativo, alternarsi di giorno e notte, soffermandosi su paesaggi crepuscolari e creando un’atmosfera onirica, sempre più da incubo man mano che la storia procede verso la sua conclusione. Fondamentale si rivela anche il gioco di ombre, nella celeberrima sequenza, fonte imperitura di imitazioni e parodie, della minacciosa intrusione del vampiro nella casa di Hutter; sequenza che si conclude con la proiezione della mano di Orlok sul petto di Ellen in un afflato quasi erotico. Il vero assoluto protagonista è proprio lui, Nosferatu, divenuto in brevissimo tempo un’icona, un mito acquisito dalla cultura popolare e dall’immaginario collettivo. Le orecchie a punta a contorno di una testa spigolosa, quasi da topo, gli incisivi ultra sviluppati (non i canini come nella classica tradizione vampirica), la postura ingessata, quasi goffa potrebbero forse strappare un sorriso. Ma quelle mani artigliate, lo sguardo allucinato, ipnotico, l’andatura “levitante” (un espediente tanto semplice, quanto efficace, usato ancora oggi), la sua ombra, rimangono inquietanti anche per lo spettatore moderno. La scena in cui Orlok è chino sul collo di Ellen è poi autenticamente terrorizzante. Dietro il trucco del Nosferatu c’era il caratterista, noto soprattutto come autore di teatro, Max Schreck, il cui nome, probabilmente non a caso, è letteralmente traducibile con “spavento” e che leggenda vorrebbe essere addirittura un vero vampiro; leggenda che ha ispirato anche un film del 2000, L’ombra del Vampiro di Elias Merhige con John Malkovich e Willem Dafoe. I personaggi interpretati dagli altri attori finiscono con il rimanere in secondo piano, funzionali alla storia, ma quasi tutti succubi del magnetismo del Conte. La figura di Van Helsing/Bulwer è infatti nettamente ridimensionata rispetto al romanzo e a tutte le successive incarnazioni cinematografiche di Dracula, ma per come lo sceneggiatore Henrik Galeen ha orchestrato la trama, affidando l’onere suicida di uccidere il vampiro alla compagna di Hutter, non se ne sente la mancanza. La regia di Murnau è innovativa, virtuosistica, con soluzioni originali come ad esempio le sequenze “accelerate” e una cura eccezionale, tanto nelle riprese in interno quanto in esterna, in particolare nel creare l’atmosfera del castello di Orlok, non maestoso come in successive produzioni ma anzi desolatamente spettrale. Capolavoro senza tempo.


 Reperibilità: C’è l’imbarazzo della scelta, anche a prezzi modici. L’offerta più completa è quella dell’inglese Eureka: blue-ray o doppio DVD, ma è senza sottotitoli in italiano; se non ne potete fare a meno potete ripiegare sull’edizione Ermitage.

Titolo: Nosferatu eine Symphonie des Grauens 
Produzione: Germania (1922), b/n, muto, 94 minuti 
Regia: F.W. Murnau
Cast: Max Schreck, Gustav Von Wangenheim, Greta Schroder, Alexander Granach